Fidanzate de Roma: All Reds Girls – Giulia Anania

Qui ho corso sentendomi a casa. Qui dove un’ insegna al neon intermittente, arazzi spray su muri scorticati, il murales visionario di Blu, i nomi incisi in tutto di Renato e di Antonio, un campo di basket in un parcheggio dismesso e un levriero finalmente sereno, vegliano il giorno e la sera…

Ho corso sentendomi a casa, accanto ad altre ragazze. Alle loro facce, ai sorrisi con il paradenti, alle loro spalle, alle loro storie simili alla mia, di militanza, di vita precaria per lavoro o abitazione, simili per la voglia di creare bellezza, di tagliare e cambiare l’aria trasformando ideale in azione. Le All Reds girls si chiamano per nome nella mischia, nella prospettiva grandangolo del campo nel ex Cinodromo (luogo di poesia circolare che quando Roma diventa tutta rossa di tramonto ti brucia il cuore, lì poco sotto l’anello lunare di Viale Marconi). Si afferrano, si mischiano, si strattonano e ridono sulla terra crepata e dura o scivolosa del fango se piove, ogni mercoledì e venerdì sera. Tengono ben stretta tra le mani una palla ovale, se la passano o la proteggono, la spingono oltre la meta reale e ideale. Oltre il sessismo, nei valori della solidarietà, dell’ antifascismo e dell’ antirazzismo. Può fare caldissimo, può essere periodo di festa, puoi farti amica la grandine e la pioggia obliqua, ogni mercoledì e venerdì sera loro sono lì con le maglie rosso vivo e una stella sul petto. In uno spazio che assieme alla squadra maschile, proteggono e curano, rendendolo libero e liberatorio ogni giorno. Se lo tengono ben stretto all’ altezza del cuore come l’ovale, quello spazio. Nel bel mezzo del grigio Marconi (un colore specifico nel pantone), del grigio della speculazione capitolina, lo proteggono dal vuoto siderale della capitale di questa nazione. Qui ho corso sentendomi a casa. Che poi la mia corsa è più che altro una rincorsa, di quelle con un sacco di fiatone. Non sono mai stata sportiva perché non sono mai riuscita ad amare lo sport Presi anche il debito in educazione fisica al Liceo, con tutta la scuola che venne a vedere a Settembre l’esame. E’ che per me lo sport è sempre stato una specie di tortura. Essere una bambina per me è significato essere iscritta a: danza artistica, danza rimica, danza hip hop, danza quarcosa. Quando il mio sport preferito era rotolare giù dal qualsiasi montarozzo, il mio sport era essere semplicemente felice e profumare di prato. C’è lo sport per i maschi , lo sport per le femmine. Nei centri estivi, nelle ricreazioni, nei cortili dei preti, ci sono gli sport maschili e femminili, una linea immaginaria che divide, che da subito imprime il concetto di sbagliato o di normale, di come si deve stare, di dove possono arrivare le femmine e dove i maschi. Per me lo sport è sempre significato sentirmi gettata in quello strano concetto di competizione, messa di fronte alla parola “femminile”. Gli spogliatoi, devo ammetterlo, mi hanno sempre messo profondamente a disagio. Erano proprio un momentaccio per me.Negli spogliatoi non mi sono mai sentita a casa. In quelli dell’ Acrobax invece si. Sarà che il rugby in qualche modo ti fa accorgere del tuo corpo attraverso un contatto profondo, di condivisione, dove tutti sono uniti per una meta che appartiene a tutti e bisogna far di tutto per raggiungerla. E che quella meta, in un posto così come il laboratorio occupato Acrobax, è qualcosa che ti fa vedere oltre, che oltre spinge il tuo sguardo. E’ un abbraccio che vuol dire lottare e cadere insieme. Inseguirsi, senza lasciarsi mai stare, sfuggire alla mischia e dalla mischia non farsi acchiappare. Una meta come un sogno totale. Sarà che puoi rotolarti nel fango, restituire il gioco alla terra, anche nel bel mezzo della città, anche nel bel mezzo della tua età quasi adulta, anche nel bel mezzo della tua “femminilità”. Sotto le docce bollenti, dopo aver spogliato la pelle del fango, negli specchi appannati che truccano gli occhi il venerdì a fine allenamento dopo aver tanto corso, mi sento a casa.